di Olivier Dupuis e Carmelo Palma
Oggi la crisi diplomatica con Mosca viene interpretata come una possibile guerra americana e non come la volontà di un Paese di ricongiungersi al mondo della libertà e dello stato di diritto. Questa mentalità è la vera debolezza euro-atlantica nella sfida con il Cremlino
A dire nel 1939 che non si poteva «morire per Danzica» fu un pacifista e socialista francese, Marcel Déat, che finì la sua carriera da collaborazionista dei nazisti e ministro del governo di Vichy. La sua vicenda dimostra in modo quasi emblematico la relazione intrinseca tra pacifismo e nazionalismo, che corre come un filo rosso lungo tutto il corso della storia europea del ‘900.
L’unilateralismo nazionalista ha due facce apparentemente opposte, ma sostanzialmente fungibili, quella pacifista e quella militarista, collegate allo stesso principio di sovranità, che ricorre in termini diversi sia nella retorica anti-interventista – come non ingerenza – sia in quella imperialistica, come autodeterminazione e difesa dell’interesse nazionale.
Neppure la creazione dell’Unione europea, che ha ancorato la ricostruzione economica e civile del continente a una dimensione e a istituzioni sovranazionali, è riuscita davvero a dissolvere l’equivoco della necessaria equivalenza tra ordine politico e stato nazionale. Equivalenza che ritorna prepotentemente proprio sulle materie storicamente escluse dalla sovranità condivisa dell’Unione.
Difesa e sicurezza, in particolare, non sono diventate competenze europee, ma hanno anche cessato di essere effettive responsabilità nazionali, perché a provvedere a proteggere gli Stati membri, la loro libertà politica e la loro integrità territoriale è stata la Nato, ovvero gli Stati Uniti. Nel contempo, se non la responsabilità, almeno la competenza formale su questi temi è rimasta in capo a stati nazionali, che non erano in grado di esercitarla autonomamente e che, nella stragrande maggioranza dei casi, erano anche refrattari a condividere il costo economico e politico dell’impegno americano.
Anche dopo la fine della Guerra Fredda è continuato il free riding europeo e la riluttanza con cui gli Stati dell’Unione europea sembrano seguire Stati Uniti e Nato nella sfida con la Russia sull’Ucraina è la conseguenza di questo stato di volontaria minorità strategica, coltivata come una forma di prosecuzione onirica della stagione di Yalta.
Così il paradosso adesso è che alla Nato e agli Stati Uniti allo stesso tempo si imputa un espansionismo nel vicinato europeo, che mette a repentaglio la sicurezza degli Stati dell’Unione, e si rimprovera un riposizionamento sull’asse del Pacifico (il cosiddetto pivot to Asia), che scopre il fianco all’Europa proprio sul lato più minaccioso, quello est europeo.
Rimane però il fatto che la classe politica e l’opinione pubblica degli Stati membri ha totalmente disimparato a considerare quella della difesa come una responsabilità politica e ora usa gli interessi nazionali e le urgenze domestiche come un modo per sottrarsene.
Così dopo mezzo secolo di free riding della guerra, passati a incassare i vantaggi della sfida militare tra Stati Uniti e Unione sovietica, da decenni l’Europa tenta di lucrare i vantaggi di un free riding della pace, disimpegnandosi, salvo eccezioni, dalle cosiddette guerre americane e provando a usare questo disimpegno come polizza di sicurezza rispetto ai nemici più minacciosi.
L’impressione è che oggi anche la questione Ucraina venga incredibilmente interpretata come una guerra americana e non come la volontà di un Paese, massacrato prima, durante e dopo il comunismo da Mosca, di ricongiungersi all’Europa della libertà e dello stato di diritto e di godere della stessa protezione degli Stati dell’Unione, cioè quella della Nato. La verità, tragica e umiliante, è che ci sono più europeisti a Kiev che in molte capitali europee e certamente a Roma. Non manca chi prova razionalmente e realisticamente a spiegare che l’integrazione euro-atlantica dell’Ucraina è anche in difesa degli interessi degli attuali Paesi dell’Unione europea.
Ma la realtà è che, ad esempio in Italia, non c’è un solo partito, anche lasciando tra parentesi la questione Nato, favorevole all’inizio immediato dei negoziati per l’adesione dell’Ucraina all’Unione. E neppure in Francia e in Germania. Per le esigenze della “pace” sono tutti più o meno persuasi che l’Ucraina debba rimanere sospesa a tempo indeterminato tra speranze europee e minacce russe.
Non solo la disponibilità a morire per Kiev, che nessuno in Europa ha mai considerato neppure astrattamente un’opzione, ma anche quella a incrinare il business as usual con Mosca sono per lo più considerate contrarie all’interesse nazionale da parte di chi continua a venerare nello stato nazione il simulacro di una sovranità di cartapesta. Il pacifismo filo-russo sull’Ucraina è infatti l’immancabile e comune bandiera di tutti i nazionalisti anti-europei, di destra e di sinistra, che pensano di difendere la propria libertà con il servaggio altrui.
Come appunto Déat nel 1939. E come Déat a Vichy anche questi “pacifisti” non si farebbero troppi scrupoli a diventare scherani di Putin per salvare l’onore della patria, se la ricerca di spazio vitale del Cremlino provasse a puntare più a ovest e davvero la Nato e gli Stati Uniti togliessero il disturbo, lasciando gli stati europei in “pace” con la Russia.