« Conosco un solo dovere ed è quello di amare. »
Albert Camus, Carnets I, settembre 1937
E’ di rientro da un breve soggiorno all’estero che ho appreso che te ne eri andato. Ci eravamo persi di vista da non pochi anni quando ci siamo « ritrovati », 5 anni fa, su quella che viene chiamata una rete sociale. Il nostro primo incontro risale alla notte dei tempi. Se i miei ricordi non mi tradiscono, nel 1980 o nel 1981, a Firenze o Bologna, all’occasione di un congresso del Partito radicale. Poi ci siamo rivisti a Roma, nella sede traballante del Partito Radicale, via di Torre Argentina 18. C’erano li Patricia Tourancheau, Manu, la tua futura musa, qualche altro amico di Nantes, gli antimilitaristi radicali Guido Votano, Yvan Novelli, Gaetano Dentamaro, Paolo Pietrosanti, il nostro capo orchestra Stefano Anderson nella cui casa ci ritrovavamo la sera, all’ultimo piano di un palazzo che distava un braccio dalle mura del caput mundi e ad un tiro di schioppo da Piazza San Giovanni. Eravamo una ventina di « cospiratori », italiani, francesi, spagnoli e belgi. L’idea, il « piano », era di organizzare lo stesso giorno, alla stessa ora, delle manifestazioni a Mosca, Praga, Berlino Est, Budapest e Sofia per sostenere la campagna contro lo sterminio per fame che era allora la priorità del Partito radicale e chiedere il rispetto degli Accordi di Helsinki per i nostri concittadini dall’altro lato della cortina di ferro.
Tu ed io ci siamo ritrovati nella squadra di Stefano 1. Un quarto uomo, il nantese Bernard Pluchon, avrebbe assicurato, incognito, il servizio fotografico e giornalistico. Obbiettivo Praga. Il 19 aprile 1982 al mattino, abbiamo fatto sventolare il nostro striscione, in Piazza San Venceslao, al posto dove Jan Palach si era immolato 14 anni prima per denunciare l’invasione e la feroce repressione sovietiche. Abbiamo fatto in tempo a distribuire qualche centinaio di volantini. Delle persone hanno cominciato a fermarsi, un po’ incredule, ma che, per quanto potevamo capire, ci incoraggiavano. La folla si faceva più importante quando i poliziotti sono arrivati. E siamo stati rapidamente portati in ciò che ci è sembrato un commissariato. Ci siamo rimasti tre giorni, in celle che condividevamo con altri quattro o cinque detenuti. Una stretta botola a mo’ di finestra, luci al neon accese giorno e notte. Di tanto in tanto, avevamo diritto ad un interrogatorio, assistiti da un interprete, impaurito e sconcertato, panettiere di mestiere, nominato d’ufficio per l’occasione. E’ vero che ci avevamo messo del nostro, lasciando i nostri passaporti in albergo e affidando ai poliziotti il compito di scoprire la nostra identità. Gli servirono due giorni per venir a capo di questa birichinata pianificata. Il terzo giorno, a notte fonda, due immense Volga nere ci portarono via verso una stazione deserta dove fummo fatti salire su un treno di notte per Monaco. Sui nostri passaporti figurava un bel timbro di cui andavamo, tutto sommato, abbastanza fieri : « tre anni di interdizione d’ingresso sul territorio cecoslovacco ». Ed il ricordo di quella frontiera con, come in un film, mirador, luci accecanti, filo spinato, soldati accompagnati da pastori tedeschi e muniti di potenti torce per verificare che non ci fosse nessun passeggero clandestino sugli assi dei vagoni.
Poi sei venuto a Bruxelles. Jean Fabre ti aveva chiamato per coordinare la rete francese della campagna « contro lo sterminio per fame ». Sei rimasto solo qualche mese, non molto di più se mi ricordo bene. Non ho mai saputo bene, non ne abbiamo mai veramente riparlato, se, ciò che ti aveva spinto ad andartene, fosse il risultato di divergenze politiche tra te, il libertario autogestionario nonviolento e gli « altri », noi, liberali libertari nonviolenti, oppure se fosse la mancanza della tua città, quella Nantes che amavi tanto e gli amici che vi avevi lasciato li.
Ci siamo rivisti gli anni successivi in Italia, in occasione di riunioni e di congressi radicali. Nel settembre 1985, ci risiamo. Obbiettivo, questa volta : la Iugoslavia. Modus operandi : una distribuzione massiccia di volantini nei quali, a seguito di Marco Pannella al Parlamento europeo, chiedevamo l’integrazione rapida di questo Paese in quella che veniva ancora chiamata la Comunità europea. 1985 : sei anni prima dell’inizio di una guerra che avrebbe fatto più di due cento mila morti. Allora, come nei sei anni successivi e malgrado altre manifestazioni, conferenze, interventi al Parlamento europeo, eravamo noi i matti, i non realistici, i « dolci sognatori » mentre i Kohl, Mitterrand, Craxi, Andreotti e Delors di allora, tutti partigiani dell’insostenibile statu quo, erano i « ragionevoli ». Eravamo una quindicina tra cui il fiorentino Andrea Tamburi, assassinato a Mosca qualche anno più tardi. Un primo gruppo doveva recarsi a Zagabria, il secondo a Belgrado, il terzo, il nostro, doveva farsi carico della costa dalmata. Un terzo complice, un pensionato italiano alla sua prima esperienza, ci accompagnava. Abbiamo affittato una macchina a Trieste e siamo partiti per Fiume, Zara, poi Sebenico. Inebriati sia dalla bellezza di quelle città veneziane che dalla facilità con la quale infornavamo i volantini nelle buche delle lettere, li depositavamo sulle panchine pubbliche e in qualsiasi posto dove potevano essere recuperati dagli abitanti del luogo. A Spalato, dopo avere distribuito centinaia di volantini nelle viuzze minuscole del centro storico, abbiamo scoperto, sbalorditi, il peristilio di Diocleziano. Il terzo giorno, abbiamo proseguito la nostra strada in direzione di Dubrovnik. A qualche chilometro dalla città, siamo stati fermati ad un blocco stradale. Un poliziotto ha perquisito i nostri bagagli ma non ha sollevato il tappeto del bagagliaio sotto il quale si trovavano ancora, ben ordinati, alcune migliaia di volantini. Nei sobborghi della città, ci siamo fermati e rimessi al lavoro. All’ora stabilita del nostro ritrovamento, il terzo uomo mancava alla chiamata. Abbiamo allora deciso, tu ed io, di consegnarci alla polizia. Delle tre giornate passate dietro le sbarre, mi ricordo il contrasto tra la rudezza del personale carcerario e l’affabilità degli ispettori che ci interrogavano, faticando a nascondere le loro simpatie per la nostra azione. Poi ci hanno portato al porto dove fummo imbarcati su una nave in partenza per Bari che aspettava solo noi per salpare. Fu una bella traversata sotto un magnifico sole di settembre. Eri tutto un sorriso, riempito dalla felicità che procurano le azioni riuscite, azioni collettive avresti precisato e, un po’ anche, dalla soddisfazione, di aver sventato, per poco, la contro-offensiva delle autorità. Non abbiamo mai visto la vecchia città di Dubrovnik.
Poi, ci siamo poco a poco persi di vista, fino a questo « ritrovarsi » su una rete sociale dove ogni tanto, interagivamo. Ho presente, ovviamente, la tua risposta, recente – era lo scorso 3 marzo e non sapevo che eri alle prese con questa gravissima malattia : « Sviluppa Olivier ». Non l’ho fatto, prigioniero, un po’, delle mille piccole cose che riempiono le giornate ma consapevole anche che la questione sollevata meritava qualche cosa di più di in commento rapido. Evocavi il « sogno francese », il « modello universalista democratico laico, riassunto dal motto « Libertà, uguaglianza, fraternità », illustrato dalle scosse rivoluzionarie del 1789, 1793, 1830, 1848, la Comune, … ».
A pensarci bene, credo che senza mai formularlo, avevamo, l’uno e l’altro, capito che li risiedeva l’essenziale delle nostre divergenze politiche. L’alto valore che tu attribuivi a questi momenti rivoluzionari e la profonda diffidenza che nutrivo nei loro confronti in ragione dei vagoni di usurpatori, di tagliatori di testa e di assetati di potere che molto spesso portano con loro.
Ma le « tue » rivoluzioni a venire come le « mie » riforme radicali future avevano un denominatore comune : la nonviolenza. Non è quindi un caso se, tu che io, ciascuno per conto proprio, siamo stati sedotti da quanto che Gianfranco Spadaccia, Marco Pannella, Franco De Cataldo, Franco Rocella, Angiolo Bandinelli, … i rifondatori del Partito radicale, avevano teorizzato e messo in pratica sin dagli anni 60 con le lotte per il divorzio, la legalizzazione dell’aborto, l’obiezione di coscienza : non sono solo le conquiste politiche, nella fattispecie i diritti civili, che sono emancipatrici ma sono anche le battaglie che consentono di realizzarle.
E’ questo stesso approccio che ritrovo nel tuo bilancio di vita quando scrivi « (…) occorre instancabilmente, pazientemente, costruttivamente, inventare delle proposte molto concrete di azioni dirette, creative, se possibile riuscite, che la gente ordinaria come noi possa far propria in seguito liberamente, senza intermediari né tutori ideologici. (…) ».
« Sempre prendere la difesa dei più deboli », « Sempre tentare di mettersi al posto dell’altro », « Distribuire a tutti senza limiti benevolenza e allegria », erano alcuni dei tuoi assiomi di vita. Che bel bilancio di vita Luc.
« Siate buoni, non nel senso di « eccezionalmente competitivi », ma nel senso di : capaci di amore e di empatia attiva. (…) La bontà ci renderà più forti » scrivevi in una lettera ai tuoi amici due giorni prima di spiccare il volo. Che bel elogio della bontà in un’epoca nella quale il « buonismo », la postura bella o buona, questa radicale impostura, ha la spiacevole tendenza a rubargli il posto.
Luc, amavo il tuo sorriso allo stesso tempo leggermente beffardo e profondamente benevolo, il tuo gusto per la festa, quella che riunisce davvero la gente. Eri ciò che gli Italiani chiamano « una bella persona », una bellissima persona. Grazie per tutto ciò e per molte altre cose.
Notes:
- Erratum. La mia memoria mi ha fatto uno scherzo, ha “mescolato” i miei ricordi. Michel Clette, uno dei partecipanti alle manifestazioni del 1982, mi segnala che Luc non faceva parte della squadra di Praga ma bensi di quella di Mosca. Il terzo uomo della squadra praghese era un altro nantese, Jean-Paul Sultot. Sorry. ↩